LA CONVERSIONE DI SAULO

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Riflessioni su GENESI

Ultimo Aggiornamento: 11/05/2011 18:40
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Il vero discorso è: “Tu non puoi mangiare, cioè assimilare, la conoscenza, cioè il possesso, l’essere principio, origine, avere i segreti, di tutta intera la realtà in tutte le sue dimensioni materiali e spirituali. Tu non puoi diventare, assumere, strappare e far diventare tuo l’essere origine del Tutto”. Capite che quando Dio dice questo all’uomo non sta facendo altro che dire: “Guarda che tu sei uomo, non puoi essere Dio”. Viene detto sotto forma di comando perché è nel rapporto con la legge che l’uomo scopre l’alterità. Perché è nel rapporto con la legge che tu scopri che non ci sei tu solo e che esistono pure gli altri con i loro diritti e che tu li devi rispettare.
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Il bambino crede di essere lui solo, tanto che addirittura c’è una fase in cui anche sua madre fa parte di lui; ma quand’è che il bambino diventa veramente consapevole della propria identità? Quando diventa consapevole che esistono gli altri. E come fa? Quando cominciano a dirgli: “No! Questo tu non lo puoi fare”. “Perché?” Se uno risponde: “Perché no!” è meglio che rinunci a fare il genitore, ma se invece uno gli risponde: “Non puoi perché vedi che c’è anche lui e questa cosa fa male a lui; e lui è come te e deve avere il tuo stesso giocattolo”, il bambino, attraverso la legge, quello che gli dicono il padre e la madre, scopre che al mondo non c’è solo lui, ci sono anche gli altri, che il suo spazio è limitato perché c’è lo spazio dell’altro che va rispettato. E’ questo che permette al bambino di crescere e di prendere coscienza di sé. E’ questo che fa diventare l’uomo adulto. Ed è la negazione di questo l’infantilizzazione di ogni adulto egocentrico.
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Dio sta facendo questo. Attraverso forma di comando, per i motivi che abbiamo visto, sta dicendo all’uomo: “Tu sei uomo e questa è la tua verità e bisogna che tu ne prenda coscienza e la rispetti, perché solo così tu puoi essere davvero uomo e prendere coscienza della tua identità ed essere davvero in comunione con me”. Perché solo se mi riconosco diverso posso essere in comunione. Questo comando è offerta di verità e di comunione. Perché dico che qui è la sintesi del paradosso dell’uomo? Perché confrontandosi con questo comando l’uomo prende coscienza del proprio essere uomo, quindi prende coscienza del limite, fa esperienza di alterità, ma questo limite diventa apertura all’altro e quindi l’uomo capisce di essere polvere, ma capisce anche di essere immagine di Dio secondo Gen 1 e signore del giardino secondo Gen 2, perché il comando gli indica la via di quell’essere uomo, quindi di quell’accettazione di essere polvere che però lo mette in relazione e in comunione con Dio. Questo comando, secondo il nostro racconto, riguarda l’albero della conoscenza del bene e del male.
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Ma nel nostro racconto, Gen 2,9, quando si descrive come è fatto il giardino, si dice:

E il Signore Dio fece germogliare dalla terra ogni albero bello da vedere, buono da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.

Quando descrivono il giardino, ci dicono che è pieno di alberi, e che c’è un albero della vita che sta in mezzo al giardino e un albero della conoscenza del bene e del male. Gli alberi sono due. E il fatto che ci siano due alberi pone qualche problema, perché l’albero della vita poi sparisce e si ritrova solo alla fine quando Dio mette il cherubino a bloccare la via, mentre invece per tutto il resto del racconto si continua a parlare dell’albero proibito.
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Qui si tende a dire, da parte di alcuni studiosi, che in realtà c’è una convergenza di due diverse tradizioni. Una che parlava dell’albero proibito, che sarebbe quello della conoscenza del bene e del male, l’altra che risente dell’influenza dei miti mesopotamici dove si parlava dell’albero della vita e di un serpente che ruba la pianta. Il racconto – dicono - vuole parlare di un albero solo, l’albero proibito. Questo è quello che normalmente si dice e probabilmente non è falso, dico probabilmente perché questa faccenda delle tradizioni che confluiscono in uno stesso testo è una pura ipotesi e non si può provare perché noi non abbiamo le tradizioni a cui si farebbe riferimento. Anche ritenendo sufficientemente verosimile che qui siano state utilizzate due tradizioni diverse, quello che però poi è avvenuto è che nello scrivere le hanno utilizzate entrambe. O noi diciamo che a noi del testo biblico non ce ne importa nulla perché siamo interessati solo a quali tradizioni usavano gli autori, a qual è la tradizione migliore, ma allora non stiamo leggendo la Bibbia, stiamo facendo un’opera di ricostruzione letteraria, dal sentore fortemente archeologico oppure vogliamo leggere la Bibbia.
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E la Bibbia è questa, che Israele ha assunto come testo ispirato e che la Chiesa ha ricevuto da Israele e che ha assunto e riconosciuto come testo ispirato e ci ha messo tra le mani perché alimenti la nostra fede. Se la Bibbia è questa bisogna tenersi quello che c’è scritto. Uno potrebbe dire che è solo un errore commesso unificando due tradizioni. Questo punto va chiarito. Non solo il testo della Bibbia è riconosciuto come testo ispirato e come tale è normativo, ma c’è una considerazione terra terra e più umana da fare, in aggiunta. Possibile che il redattore ultimo che ha scritto questo testo fosse così deficiente da non accorgersi che stava scrivendo che gli alberi sono due? O era sbronzo e vedeva doppio o era cretino. Perché se scrive: “C’erano tanti alberi, e c’era quello della vita che stava in mezzo al giardino (ti dice pure dove stava!), e poi quello della conoscenza del bene e del male...”. Possibile che uno sia così cretino? Lo sa che sta parlando di due alberi.
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Al di là della professione di fede che io faccio dicendo che questo è il testo ispirato e a me interessa questo e del resto mi importa, ma solo nella misura in cui mi aiuta a capire questo, faccio un ragionamento più tranquillo dicendo che non potevano essere tutti cretini. Vogliamo dare un minimo di credibilità a questi che sapevano scrivere e scrivere bene? Se l’autore ultimo ha voluto mantenere entrambe le tradizioni, per qualche motivo lo avrà fatto. A noi adesso tocca il compito di tenerci due alberi e di capire perché sono due. Io la mia ipotesi ce l’avrei.

A me sembra che - e poi troveremo la conferma in Gen 3 - tenendo le due tradizioni, ammesso che di questo si tratti, il redattore ultimo ha messo in gioco qualche cosa di estremamente delicato oltre che di estremamente importante: il concetto di vita. Non gli bastava fare il discorso: “Dio ha dato il comando sull’albero della conoscenza del bene e del male e ha indicato all’uomo la via per essere veramente uomo”. Ha voluto mettere in gioco il discorso della vita dicendo che la vita di per sé non è proibita all’uomo. Perché l’albero proibito è solo uno.
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L’autore biblico ha voluto chiarire che quando si dice che tu non devi mangiare dell’albero del bene e del male, tu non devi pensare che ti sia precluso l’esistere, ma che nella misura in cui tu accetti di non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, di non essere Dio e di vivere in obbedienza a Dio, allora puoi anche mangiare dell’albero della vita, allora la vita è tua, allora la vita la gestisci tu, allora sei tu il signore della vita, proprio come sei signore del giardino, ma sarai signore della vita come sarai signore del giardino, cioè accogliendo la vita come dono, rispettandola e vivendo la tua signoria nei confronti della vita in dipendenza e in obbedienza a Dio che è l’unico Signore della vita.

Che è quello che vi dicevo nel precedente incontro: “Tutto è vostro, se voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio”. Tutto è nostro se noi viviamo in obbedienza a Dio. La vita è nostra, non c’è da aver paura, la vita ci appartiene, se noi però non mangiamo dell’albero della conoscenza del bene e del male. Quindi se noi capiamo che, sì, questa vita ci appartiene, ma ci appartiene come dono che noi riceviamo e che dobbiamo continuare a rispettare e a vivere come dono senza mai appropriarcene e senza mai dire: “Questa è roba mia e ci faccio quello che mi pare”, perché questa è roba mia, ma è mia perché c’è Lui che me la dà, e quindi è mia mentre continua ad essere sua.

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Ecco il punto, di nuovo un paradosso. E dunque io la gestisco in obbedienza e in radicale dipendenza da Dio. Perciò non mangio dell’albero della conoscenza del bene e del male. Perché io non mi sostituisco a Dio e perciò la vita si apre davanti a me in tutta libertà. Che è quella libertà somma che è la possibilità di vivere obbedendo a Dio. Perché secondo la prospettiva biblica libertà e obbedienza vanno insieme e sono praticamente la stessa cosa. Non c’è obbedienza possibile se non nella libertà e la vera libertà è di poter obbedire. A Dio, non agli uomini. L’uomo perciò diventa veramente signore del creato a tutti i livelli, solo se accetta di non essere lui il Creatore. Questo è ciò che viene detto all’uomo.

E qui bisogna che ci capiamo sui termini. In questo nostro racconto, per tutta la prima parte si parla di Adam. Questo termine in ebraico vuol dire fondamentalmente umanità, genere umano in senso collettivo. In senso individuale vuol dire persona umana. Quindi uomo, ma non maschio, uomo come persona umana in cui la specificazione sessuale è del tutto impropria e indifferente. Tanto che questo termine può addirittura essere usato come pronome indefinito: qualcuno, uno.
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Diventa nome proprio di persona, quindi Adamo, solo in Gen 4,25. Questo è generalmente riconosciuto. Quindi quando noi diciamo Adam noi diciamo la persona umana. In questo racconto si dice che il Signore Dio plasmò Adam polvere del suolo, poi soffiò l’alito di vita e Adam divenne un essere vivente. Poi il Signore piantò un giardino e vi collocò Adam. Ci sono gli alberi, i fiumi e il Signore prese Adam e lo mise nel giardino e il Signore diede questo comando ad Adam... e poi il Signore Dio disse: “Non è bene che Adam sia solo”.

Vi ricordate che fa gli animali, Adam impone il nome agli animali, perché lui è superiore agli animali e poi Dio addormenta Adam, gli prende un lato, ne fa una donna (versetto 22), ’ishsha in ebraico, e la portò ad Adam e Adam disse: “Questa volta questa davvero è osso delle mie ossa e carne della mia carne, per questo si chiamerà ’ishsha perché da ’ish essa è stata tratta”.
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Voi adesso dovete fare questo sforzo mentale di sostituire alla parola uomo che siete abituati a sentire nel racconto di Gen 2, l’espressione persona umana. E’ la persona umana che viene formata come polvere dalla terra. E’ la persona umana che riceve il comando, è la persona umana che non è bene sia sola. Notate che questo “non è bene” in ebraico è lo tob, lo vuol dire “non” e tob è lo stesso termine che abbiamo visto precedentemente, che significa “bello e buono”. Alla fine di ogni giorno di creazione Dio dice che ciò che è creato è tob. Ora Dio dice lo tob. La creazione dell’essere umano non è ancora completa, come si diceva alla fine di ogni giornata quando le cose erano finite.

Non è ancora completa, non è ancora buona e bella in quel senso, gli manca qualcosa. Gli manca l’aiuto che vuol dire alleato, alleato fedele, quello che viene in tuo soccorso quando tu sei in pericolo, quello che ti aiuta quando sei in difficoltà, quello che condivide con te tutto perché fa alleanza con te e ormai quindi due sono diventati uno. Un aiuto che gli sia corrispondente.

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Non c’è ancora e quindi la persona umana non è ancora tob. E quando diventa tob? Quando questa persona diventa ’ish e ’ishsha, uomo e donna. L’idea che di solito si dà di questo testo è che c’è la prima parte del racconto che racconta la creazione dell’uomo e la seconda parte che racconta la creazione della donna. Questa divisione non rende assolutamente ragione, non solo del modo in cui si utilizza il termine l’Adam, notate che lo usano con l’articolo, non è Adamo.

Ma soprattutto non rende conto di ciò che il racconto dice. Perché se fosse così, solo l’uomo è fatto di polvere, la donna no! Solo l’uomo riceve il comando e quindi non è Dio, la donna no! Quindi è Dio. Capite che non può funzionare. E’ chiaro che chi è fatto dalla polvere e chi riceve il comando “Tu sei un essere umano e non puoi essere Dio” è l’essere umano, non solo il maschio. Quello che il nostro racconto ci vuole dire è che questo essere umano non è completo, finché non entra nella dimensione dell’alterità e finché non scopre di essere maschio e femmina e quindi diverso e quindi in relazione costitutiva e quindi in perenne stato di bisogno.
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Perché nessuno di noi è mai persona umana completa. Noi siamo esseri di bisogno. Siamo esseri costitutivamente bisognosi dell’altro e soprattutto di quell’Altro che è Dio. Il racconto non è allora: prima viene creato l’uomo e poi la donna. Tanto è vero che quando viene creata la donna, Dio non fa un altro atto di creazione, non prende altra polvere, come invece fa per gli animali. C’è un unico racconto in cui c’è la descrizione della creazione dell’essere umano che è essere umano, fatto dalla terra, che riceve il comando, che dà il nome agli animali e che definitivamente è ’ish e ’ishsha, uomo e donna, quindi alterità con tutto quello che questo significa.

E la dimensione dell’essere mancante è perché ad uno viene tolto il fianco (non c’entra niente la costola, il termine ebraico vuol dire lato, fianco, si usa addirittura per indicare il lato di un edificio) e questo ora è senza un fianco e quest’altra pure. Si trasforma in racconto quello che Gen 1 dice sotto forma di proverbio. Gen 1,27 dice: “Dio creò l’uomo (Adam) a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò”. C’è il cambio di pronome, “a sua immagine lo creò” (la persona umana, la prima parte di Gen 2), “maschio e femmina li creò” (la seconda parte di Gen 2). Questa persona umana che è diventata due, scopre di essere due nominando l’altra e se stessa.
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La persona umana dice: “Questa è parte di me (riconoscendo lei prendo coscienza di me), si chiamerà ’ishsha perché viene da ’ish (ed è solo perché dico che lei si chiama ’ishsha che io scopro che mi chiamo ’ish). Il nome che ’ish dà ad ’ishsha non è come il nome che Adam dà agli animali, che è segno di potere. Qui il gioco tra ’ish ed ’ishsha (vengono da radici diverse ma dal suono sembrano la stessa parola) è che ’ishsha viene detto per primo. Quindi è ’ish che dà il nome ad ’ishsha, ma non facendo un atto di supremazia come con gli animali, ma riconoscendo la realtà di ’ishsha e pronunciando allora il nome dell’altra che è ciò che permette adesso a lui di pronunciare il suo nome. ’Ish non poteva dire di chiamarsi ’ish se non avesse detto che l’altra era ’ishsha.
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E’ una situazione di assoluta reciprocità in cui l’uno si riconosce nell’altro e prende coscienza di sé prendendo coscienza dell’altro. Adesso Adam è tob, è completo. Questo è il progetto sull’uomo, questo è, come lo chiamo io, il sogno di Dio sull’uomo. Un uomo che vive nell’assoluta reciprocità, che vive nella libertà dell’obbedienza, che gestisce la vita come dono di Dio, che non si sostituisce a Dio, un uomo che può raggiungere la felicità proprio in questo, un uomo che rispetta l’altro e sa di aver bisogno dell’altro, che sa di essere costitutivamente relazione e insieme bisogno. Questo è il sogno che Dio ha sull’uomo.

Solo che la realtà, il modo con cui di solito si sperimenta la realtà umana e quindi anche il modo con cui gli autori di questi testi sperimentavano l’uomo sembrano contraddire questo sogno di Dio. Dio ha fatto le cose tutte buone, anzi molto buone. L’uomo che esce dalle mani di Dio dunque è buono. Allora perché fa cose cattive? Questa è la domanda. Ed è la domanda a cui Gen 3 cerca di rispondere ancora una volta non in una prospettiva semplicemente temporale, cronologica, come se dicesse solo: “Prima l’uomo era buono, poi ha peccato ed è diventato cattivo”. Questa prospettiva non sopporterebbe due racconti di creazione diversi. Non è esattamente questo, quanto un modo con cui Gen 3 riflette su quella che è la realtà umana e la realtà umana di peccato, di rifiuto del progetto di Dio, presentandolo come qualche cosa che avviene ai tempi delle origini. Senza voler fare nessuna ricostruzione cronachistica.
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Ma per dire innanzitutto che questa è in qualche modo la realtà più profonda del peccato dell’uomo. Gen 3 dice: Dio è buono, l’uomo è buono, ma può rifiutarsi al progetto di Dio. Attraverso questo racconto indica quali sono le coordinate per capire di che rifiuto si tratta. Per capire cosa vuol dire che l’uomo rifiuta il progetto di Dio, i segni, ciò che avviene. Non solo ciò che è avvenuto in principio, ma cos’è che avviene ancora e che continuamente avviene ogni volta che l’uomo pecca. Questa è la prospettiva. Quindi una risposta al problema del male che lascia il problema del male alla sua dimensione misteriosa e inspiegabile, almeno ad un certo livello, per però spiegare e identificare quali sono i meccanismi del peccato umano e quindi quali sono i meccanismi del rifiuto da parte dell’uomo della bontà che invece Dio dona e che Dio è.
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Genesi 3
In Gen 3 il problema è il rifiuto dell’uomo e l’uomo diventa improvvisamente il protagonista del racconto. Fino ad ora, in Gen 1 e Gen 2 il protagonista del racconto era Dio, era Lui che faceva. C’era sì l’uomo, ma era Dio che agiva da protagonista. Ora l’essere umano nella sua realtà completa di uomo e donna, che vive nel giardino che Dio gli ha donato, diventa protagonista. E’ come se il racconto ci dicesse: “Bene, ora ci concentriamo sull’uomo, e su un uomo che è in qualche modo adulto e che ormai interagisce con la realtà che ha intorno, il giardino, che è il mondo. E dove, certamente, Dio c’è, ma non più con quella presenza primaria come era nel racconto finora, perché Dio è intervenuto, ha creato l’uomo, ha creato il giardino, ora il giardino glielo ha affidato ed è come se Dio un po’ si ritirasse dalla scena. Non perché se ne va o si disinteressa, ma perché il giardino c’è, l’uomo anche, ma che adesso l’uomo viva nel giardino.

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La scena si concentra sull’uomo che è stato messo nel giardino, lo coltiva, lo custodisce, entra in relazione con le cose che gli stanno intorno e ad un certo punto entra in relazione con uno degli animali che stanno nel giardino, il serpente. Compare dunque questo nuovo personaggio, che però fa parte delle creature, delle bestie terrestri che Dio ha creato, quindi niente di trascendente o di trascendentale. E’ uno degli abitanti del giardino, con cui bisogna che l’uomo entri in relazione e con la cui realtà l’uomo possa interagire sapendola manovrare. E’ una realtà un po’ problematica, dice il testo, perché si tratta sì di une delle bestie selvatiche fatte da Dio, ma della più astuta di tutte le bestie selvatiche. C’è un elemento di astuzia che viene sottolineato e che comunque già permette al lettore di pensare che qualche cosa dovrà succedere, perché se questo è astuto probabilmente il confronto tra l’astuzia del serpente e l’uomo che abita nel giardino sarà un confronto con cui bisognerà misurarsi. Notate, non viene detto esplicitamente che questa astuzia è malvagia, e non può essere detto, perché questa è una bestia creata dal Signore e le cose create dal Signore sono tutte buone. Solo che l’astuzia, come tutte le altre cose, dipende da come viene usata. E dipende anche da come l’uomo si pone davanti alle parole astute del serpente.

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Parole astute del serpente che cominciano mettendo in dubbio la ragionevolezza del comando di Dio e quindi mettendo in dubbio la bontà stessa di Dio. Nella vostra traduzione si dice:

Egli disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?”

In ebraico invece, di per sé, il segno che indica che siamo davanti ad una proposizione interrogativa non c’è. L’ebraico ha i modi per dire che la frase che comincia è una interrogativa e questi modi qui mancano. Dunque a voler proprio essere pignoli, quello che il serpente inizia a dire alla donna, non è una domanda, è una constatazione. Si potrebbe tradurre così: “E disse alla donna: Beh, ecco, allora Dio ha detto...”. Vedete, questo è significativo. Perché se uno arriva qui e ci dice: “Sentite un po’, è vero che Bruna ha detto?” Voi prima di rispondere ci pensate un attimo, perché è evidente che vi stanno mettendo in mezzo. Vi stanno chiedendo di confermare certe cose e, con una certa solennità, di prendere posizione per dire se davvero io ho detto qualcosa oppure no. E quindi voi prima di rispondere ci pensare un attimo.

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Ma se uno arriva qui e comincia a dire: “Dunque, Bruna questa mattina diceva questo...”, voi senza mettervi sulla difensiva, come davanti ad una domanda, potete assentire. Quello che il racconto vuole dire non mettendo il punto interrogativo è che quindi la tentazione su Dio ed il peccato - perché di questo si tratta - comincia in modo apparentemente innocuo, in modi davanti a cui la persona non si mette sulla difensiva perché non ne riconosce immediatamente l’insidia, perché il serpente, in questo senso, è astuto. Eccola allora l’astuzia, questa capacità - che qui viene applicata al serpente, ma il serpente è la tentazione - di insinuarsi nelle pieghe della coscienza umana di soppiatto, senza farsi accorgere, senza farsi scoprire come tentazione, ma entrando apparentemente in un dialogo tranquillo in cui si parla e basta, come se le cose non avessero delle conseguenze.
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